RadioDog
(if I can't dance, it's not my revolution)- racconti d'amore da terre resistenti
Per chi suona la campanella
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E’ molto presto quando il telefono comincia a squillare. Ci strappa dal sonno meritato dopo questi giorni intensi, in cui cerchiamo di capire qualcosa in più del fantasma che si aggira minaccioso su queste terre: l’evacuazione di 8 villaggi per fare spazio alla Firing Zone 918.
E’ presto e la vita del paese deve ancora cominciare ma, mentre A. risponde e cerca di capire la voce concitata dall’altra parte del telefono noi, annusando casini, siamo già pronti.

“Bulldozer e DCO si addentrano nella Firing zone… forse al-Fakheit, forse Jinba, forse Isfey..sono tanti!” e quindi YALLA!Ci mettiamo in strada mentre l’uragano di informazioni discordanti ci confonde le idee su dove andare: è difficile individuare con esattezza la carovana della demolizione, che sembra ovunque e in nessun posto. Quello che è certo è che si muove in un’area vasta 30’000 dunam in cui, distanti uno dall’altro si trovano gli 8 villaggi che l’IDF vuole demolire per fare spazio alle esercitazioni militari. Distruggendo case, evacuando persone in faccia al diritto internazionale, alla convenzione di Ginevra, alle dichiarazione dell’Aja, calpestando ancora una volta (e magari ancora una volta impunemente) diritti che stanno alla base del vivere umano: una casa, una famiglia, andare a scuola, un medico… tutto ciò che rende una vita dignitosa. Tutto questo per gli allenamenti dell’esercito.

Dopo alcuni minuti di panico decidiamo di entrare nel cuore della Firing zone e arriviamo a Isfey, uno degli 8 villaggi, un “paesello” di poche case situato su una collina. E’ un punto strategico perché da qui si domina tutta l’area: si apre sotto i nostri occhi, una distesa di dune e colline rocciose dove   qua e la spuntano sulle creste esposte al sole e al vento, gli altri villaggi.
E’ una scelta azzeccata perché, inconsapevolmente, ci ritroviamo a un paio di dune di distanza dalla “allegra carovana della demolizione” e vediamo subito che devono ancora cominciare.
E di nuovo YALLA! giù di corsa per la scarpata, con la mente che corre più veloce di te, con il cuore che urla “dai che arriviamo in tempo”: una piccola possibilità che non demoliscano ancora c’è, una possibilità che oggi sia diverso, finalmente. E’ quella piccola possibilità di poter far sempre qualcosa, di poter esser utili a questa gente in pericolo, ogni giorno, ogni ora, in ogni circostanza.
E quindi di nuovo e come sempre YALLA! col fiato che ti apre il torace con quella piccola possibilità che ti mette le ali ai piedi. Magari inciampi, ti distruggi il piede ma corri come Bolt lo stesso.
Arriviamo sulla cresta alle spalle dei militari e dei bulldozer che circondano minacciosi e affamati le quattro mura, di quella che i palestinesi si ostinano a chiamare “scuola” .
Sia i militari che i palestinesi sono alquanto stupiti di vederci li e ci guardano esterrefatti arrivare di corsa e aprire le telecamere: i militari con la faccia di che è stato beccato con le mani sporche di marmellata; i palestinesi con gli occhi e i sorrisi di nuovo pieni di speranza e orgoglio.
Siamo in 4 : 2 si mettono tra i militari e la scuola, gli altri 2 alle spalle dei militari a cui  preme  fare in fretta ma ancora devono mettere in moto le ruspe. Aspettiamo .
Il tempo rallenta di colpo: i militari, forse spiazzati dalla nostra presenza, sembrano temporeggiare, si fanno una sigaretta impazienti, e per il momento impotenti, mentre a qualche kilometro di distanza le bombe dell’artiglieria scandiscono il ritmo di un’esercitazione militare. Vediamo i soldatini accucciarsi, sparare, correre, accucciarsi. Sembra un gioco ma è la realtà minacciosa che bussa violenta, tentando di spaventare questi pastori dalla testa dura.
Passa il tempo, lento e forse noi l’abbiamo rallentato. Forse noi formichine con una telecamera a bassa definizione, che zumma a stento… forse. “Non è tempo per queste domande, resta sul pezzo” sembra dirmi la mia compagna.
Passa il tempo e i palestinesi chiamano gli avvocati: “Come? La scuola?” “Si quella!” “Non la possono demolire”, “Dici sul serio??” “Si sul serio, il giudice ha deciso che per il momento resta li dov’è! Non la possono neanche guardare” .
Passa il tempo e l’avvocato e l’ufficiale dell’esercito parlano e parlano, mentre i bambini, visto che sta per suonare la campanella delle 8, stanno per arrivare. Li vedo da lontano, saranno forse 20: arrivano curvi sotto i loro zaini pieni di quaderni e quando si accorgono dei bulldozer, si fermano un secondo impietriti. Respirano forte, gonfiano il petto e raddrizzano la schiena (la cultura oggi non è un dovere, ma un diritto da portare sulle spalle).
Fieri, piccoli marmocchi sfilano piantando gli occhi negli occhi dei militari, che abbassano lo sguardo, vanno dietro le camionette o si trovano qualcosa da fare, una sigaretta da arrotolare, il cellulare.
Il tempo passa lento e piano piano, quello che succede raramente, ossia la giustizia, si sta realizzando: la scuola non può essere demolita; non oggi per lo meno: gli avvocati sanno il fatto loro. I bambini entrano a scuola per posare lo zaino ed escono di nuovo quando l’ufficiale ordina il dietrofront alla carovana. E mentre i miei occhi assistono totalmente increduli alla scena dei militari che rimontano sulle camionette…
DRIIIIIIIIIIIIIIIIIN
DRIIIIIIIIIIIIIIIIIN
DRIIIIIIIIIIIIIIIIIN la campanella suona e mi scuote come un terremoto, mente i bulldozer se ne vanno zitti e lugubri.
Quel “driiin” è un suono infinito e inatteso di gioia. E’ raggio inatteso di sole tra le nuvole, un fiore sull’autostrada, oasi nel deserto.
E’ il suono del sorriso di questi bimbi che applaudono ai militari che se ne vanno.
E’ il diritto che vince sulla violazione. E’ la campana della giustizia che finalmente, almeno una volta, suona anche qui.
E’ la vita che si impone con forza sulla tragedia.

E’ il suono di quella piccola possibilità, che ogni giorno sveglia un popolo intero (formichine comprese) qui, in questa terra incredibile di Palestina.

 

M.

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