RadioDog
(if I can't dance, it's not my revolution)- racconti d'amore da terre resistenti
Gaza di rimbalzo
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Soér oggi non sorride più.
Seduta sul pavimento, le gambe raccolte sotto la grande gonna e le spalle contro il frigorifero, oggi Soér non sorriderà. Il suo viso è di marmo immobile, mentre la radio trasmette la lista di nomi e cognomi cancellati dalle bombe. Bambini, donne e uomini.

Scruto i suoi occhi cercando lacrime che non ci sono, ma il suo sguardo è arido e asciutto, come questa terra che non lascia scampo.

Ho conosciuto Soér durante la mia prima visita a Mufaqarah, il villaggio dei resistenti che da un anno a questa parte è il centro della lotta nonviolenta delle colline a sud di Hebron: un ombelico vorticante di gioia, accoglienza e ribellione che ti travolge con la sua potenza vitale appena ci arrivi. Bambini che ti prendono e ti prendono per il c…, ma che, se sai stare al gioco, ti trattano come un pari. Uomini che ti scannerizzano osservando ogni tuo gesto prima di accettarti, ma, quando lo fanno, sei tramortito da una valanga di abbracci e pacche sulle spalle degne del più antico virilismo. Ad aspettare noi formiche (che da un po’ abbiamo l’onore di esser di casa) e gli ospiti internazionali c’è lei, Soér, fiera e sorridente che elargisce tè e sorrisi con un’abbondanza che non ho trovato in questi luoghi.
E’ un sorriso disarmante, capace di avvolgere un mondo intero di amici, nemici e indifferenti e dal quale non sfuggi: lei ti vede pianta i suoi occhi nei tuoi, e comincia ad allargare la bocca e mostrare i dentoni bianchi. Tu ormai senza difese, altro non puoi fare che sorridere di rimando, stordito da quell’accoglienza, più sincero che mai.
Sei stordito, rimbambito perché è proprio come se lei andasse a pescare dentro di te il tuo sorriso. Ti costringe dolcemente e con pazienza a gustare appieno quel momento sacro dell’incontro, dell’accoglienza tra persone vive e in cammino. Poi tu finalmente sorridi e lei ti urla, in un tentativo di italiano:
“Beeeeeeeerrrrto!!! comeshtai?” e tutti ridono contagiati.
E’ così che l’ho sempre vista: fiera e indomabile nel suo velo, anche quando sono arrivati i militari e i coloni a cercare di spegnere quella luce che accoglie, minacciando o distruggendo quello che a malapena è un villaggio: grotte tende e capre. Mufaqarah.
Mufaqarah. Il nome buffo di questo posto deve la sua energia vitale a donne come questa, che gioisce nonostante tutto guardando avanti, oltre la paura del dolore. E’ debitore al sorriso vincente di Soér soprattutto nei momenti più bui.

Oggi la radio elenca senza pietà l’età dei bambini uccisi nell’orrore del massacro di Gaza, le urla dei genitori sullo sfondo, nitide. Il cuore mi si rapprende mentre la guardo, immobile come un dolore antico.
“Soér”
…niente…
“Soér”
..niente…
“Soér, scusa…”
“Che c’è?”
“Hai parenti?”
“Dove?”
“A Gaza”
“Che importa scusa?”
“…”
“Non siamo tutti fratelli?”

Seduta per terra, le gambe raccolte sotto la grande gonna, le spalle appoggiate al frigorifero, oggi Soér non ride più.
Lacrime asciutte rigano il mio volto.
Urla mute mi squarciano dentro.
Mi sento spaccato in mille pezzi.

 

Maquìs

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