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(if I can't dance, it's not my revolution)- racconti d'amore da terre resistenti
LA PORTA DEL SOLE
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E’ mattina presto di una fredda giornata invernale quando saliamo sul pulmino grigio e rosa che ci porterà a destinazione. Le colline intorno a noi sono ancora ricoperte da un insolito manto nevoso. A bordo, i 25 membri del Comitato Popolare delle Colline a Sud di Hebron (CPCSH) sono sorridenti e di buon umore, nonostante una macchina della polizia di frontiera stia pedinando la nostra “trasferta”.

Durante il viaggio veniamo informati che l’azione di oggi consiste nella costruzione di un accampamento nei pressi di un villaggio palestinese che rischia di essere evacuato dalle Forze di Difesa Israeliane. L’obiettivo è garantire una presenza stabile di attivisti locali e osservatori internazionali.

Dopo un paio d’ore ci ritroviamo in cima ad una collina, in mezzo ad una decina di tende gialle: BAB AL SHAMS (Porta del Sole) si legge su una di queste. Da qui si può vedere sia Gerusalemme che la Valle del Giordano. Verso sud, oltre la bandiera palestinese issata di recente, vediamo un insediamento di notevoli dimensioni. “Qual’è il nome della colonia laggiù?” – chiediamo ad un uomo indaffarato – “Quella è Ma’ale Adummim” – risponde risolutamente.

Ora tutto torna, non ci sono più dubbi: ci troviamo in area E1. E’ in questa zona che si trova la principale via di comunicazione tra nord e sud della West Bank. Ed è qui che, a novembre, Benjamin Netanyahu ha dichiarato di voler disporre la costruzione di 3000 unità abitative. Basta prendere una cartina che mostri la disposizione delle colonie israeliane per avere un’idea del piano politico-militare sottostante: isolare Gerusalemme est e dividere per sempre la Palestina in due macroregioni, oltre Gaza.

Dopo un paio d’ore una camionetta arriva sul posto. Una piccola folla si assiepa intorno al poliziotto che consegna un documento scritto in arabo: ordine di evacuazione immediata. Questo il verdetto per Bab Al Shams; in barba al lavoro di avvocati che da subito hanno iniziato a lavorare per scongiurare un possibile sgombero. Tuttavia nessuno sembra intenzionato ad andarsene. E’ necessario dare un forte segnale alla Forza Occupante.

Mentre la delegazione del CPCSH è impegnata nel montaggio di due tende, noi volontari andiamo a parlare con un gruppo di ragazzi e bambini che dall’alto osserva l’insolito via vai di attivisti e giornalisti. Poche decine di metri più in là c’è Zamba: 100 vite umane in tutto.
Siamo piuttosto sorpresi nell’apprendere che qui nessuno ha mai avuto problemi né con le Forze Israeliane né con i coloni degli insediamenti circostanti.
Rimango incredulo nel pensare che un villaggio come questo possa essere evacuato da un giorno all’altro.
Non riesco a dare un senso a cotanta brutalità. La religione, l’odio, la politica – mi paiono motivazioni superficiali e insufficienti. “This is Israeli occupation” sono le uniche parole che rimbalzano nella mia mente.

Ormai è quasi il tramonto e il freddo inizia a entrare nelle ossa. Sotto di noi sono già numerosi i fuochi accesi davanti alle tende. La gente chiacchiera, a volte ride.
I giornalisti si aggirano alla ricerca di personaggi da intervistare prima che faccia buio. La buona novella dev’essere diffusa.

Neanche 36 ore dopo serviranno più di 500 poliziotti e soldati per sgomberare 250 palestinesi disarmati.

Il 18 gennaio nuove tende sorgono a protezione del villaggio palestinese di Beit Iksa, in area E1.

Il Gemello Buono

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