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(if I can't dance, it's not my revolution)- racconti d'amore da terre resistenti
Esperimenti di sabotaggio ad Avigayil
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Avigayil

Non è la prima volta che mi ritrovo così vicino all’avamposto di Avigayil, sulle colline a sud di Hebron/ Al Khalil. Lo conosco bene: dopo aver passato la piccola e sinuosa strada asfaltata, dalla quale si inizia a vedere l’avamposto, leggermente sulla destra c’è la valle più profonda. Scendendo verso gli ulivi il crinale è ripido. Se non si fa abbastanza attenzione si rischia di scivolare sugli ultimi quindici metri di discesa. Conviene passare un pochino più a sud, avvicinandosi all’avamposto, per poter avere un passaggio più agevole. Poi, semmai, si possono prendere di nuovo le distanze risalendo sulla collina di fronte, dalla quale si ha un’ottima vista sia sulle case-container di Avigayil che sulla piccola e sinuosa strada asfaltata, dalla quale arriveranno, anche oggi, le camionette dell’esercito israeliano. A meno di non essere nel fondo valle, di solito c’è molto vento: benedizione d’estate e calvario d’inverno. Questa stessa valle culmina a sud, verso l’avamposto, in alcuni terrazzamenti che formano un anfiteatro. Al di sopra di questi c’è una rientranza nella roccia, con una specie di pozzo, dove i coloni amano rinfrescarsi mostrando, eventualmente, le loro nudità. Sempre in alto, ma sulla sinistra, c’è un campo di ulivi e una curiosa tettoia dove, d’estate, le famiglie di Avigayil si recano per rilassarsi. I bambini giocano, i genitori chiacchierano. Mai prima delle quattro del pomeriggio. Sui terrazzamenti della conca ci sono prati insolitamente verdi ed erbosi per la stagione. Gli stessi sono non-recintati da una serie di pali di ferro posizionati, l’uno dall’altro, a una distanza che varia da cinquanta centimetri a un metro e mezzo.

Ed è proprio qui che ci troviamo. Nel mezzo del non-recinto, sopra il terrazzamento più alto.

A dire il vero in passato mi sono trovato molto più vicino alle case-container di Avigayil. Non mi sento ancora “nel loro giardino”. È per questo che sono relativamente tranquillo, anche se i palestinesi parlano a voce bassa e fanno cenni con le mani e la testa. Siamo in sette: cinque pastori, di cui tre minorenni, e due ajaneb (stranieri in arabo). Le quattro greggi – non meno di duecento capi, tra pecore e capre – sono interamente all’interno del non-recinto.

Dopo una ventina di minuti di pascolo, A., 14 anni, lascia il suo gregge e si dirige ancora più in alto, verso il limite superiore dell’area arbitrariamente delimitata. A. si gira e – mi accorgo – ha uno sguardo d’intesa con l’altro pastore, M., poco più che ventenne. I due si scambiano una serie di segnali, di gesti col capo e qualche parola sottovoce.

Ed ecco che inizia “l’azione”.

Il più giovane fa ancora qualche passo, si abbassa e afferra due grossi rotoli di fil di ferro che erano lì, in mezzo all’erba insolitamente alta. Si gira verso di noi e dopo pochi metri li lascia rotolare sul terrazzamento sottostante. Torna indietro e afferra un altro rotolo, sempre lì in mezzo all’erba.

A quel punto mi è chiaro che tutto deve avvenire il più in fretta possibile.

Guardo le abitazioni sopra di noi, la guardiola dell’ingresso dell’avamposto. Tutto tranquillo, nessuno sta guardando anche se l’esposizione è massima. Come una piccola e svelta formichina A. sta portando a valle uno dei rotoli di fil di ferro, mentre M. ha già afferrato gli altri due. Durante la corsa di quest’ultimo arriva un segnale da un altro pastore. M. apre entrambe le mani e lascia cadere i due cilindri, che rotolano ancora per qualche metro.

È troppo tardi.

Mi giro verso le case-container e vedo un colono col cellulare all’orecchio. Mentre i pastori riordinano le loro greggi con una certa nonchalance mi prefiguro già quello che accadrà. Arriveranno i soldati, o forse la polizia e li accuseranno di furto. Forse li arresteranno. Ma furto di cosa? Furto di rotoli di fil di ferro che serviranno a costruire una recinzione per delimitare in maniera arbitraria un confine di un campo sottratto dai coloni ai palestinesi. Oppure furto di “materiale da costruzione” per nuove “strutture” di un avamposto costruito in maniera illegittima, per delimitare un confine al di là del quale i palestinesi non si dovranno più recare, perché la Forza Occupante ha deciso che tutta quell’area verrà annessa di fatto a Israele con ordine militare. In questo caso, in realtà, è la stessa concezione di “furto” a essere in discussione. Il furto presuppone un atto – l’appropriazione indebita – e un oggetto – la proprietà legittima di un bene altrui. Qui la proprietà è illegittima, in quanto illegittimo è l’uso di quel fil di ferro, cioè l’occupazione di un campo di proprietà palestinese. E l’atto di appropriazione dei palestinesi non è “indebito”, in quanto – per dirla con Aldo Capitini – “il danno che viene apportato è superato dal danno che il funzionamento di quel servizio apporta (cioè la costruzione di quella recinzione, nda)”.

Tuttavia bastano pochi minuti per farmi rendere conto dell’inconsistenza dei miei ragionamenti.

Ciò che qui accade non ha nulla a che vedere con idee quali verità, falsità, diritto, ragione, torto, giustizia. Le categorie mentali giusnaturaliste, tipicamente occidentali, non reggono al vaglio di una realtà che si presenta come puro esercizio di un potere chiaro e determinato: l’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi, volta a incorporare la maggior parte di questi allo Stato d’Israele.

Sento i pastori fischiare alle loro pecore.

Dalla piccola e sinuosa strada asfaltata sta arrivando una camionetta dell’esercito israeliano. In qualche decina di secondo il mezzo è già arrivato ai limiti dell’avamposto. Tre soldati scendono e iniziano a correre nella nostra direzione, due più velocemente e un terzo più lentamente. I pastori sono all’interno o al limitare della non-recinzione, tranne il più piccolo che si è già dato alla fuga, terrorizzato.

Ha meno di dieci anni.

Nonostante l’evidente drammaticità della situazione i miei piedi rimangono attaccati al suolo, la mano ferma, ben salda sulla videocamera. Il primo soldato che arriva – basso, pelle scura e barba poco curata per i canoni militari – ha lo sguardo infuocato. Per lui, in quel momento, noi ajaneb non esistiamo. Mi passa a fianco, come il capo di un branco di lupi che ha puntato la sua preda. La sua folle corsa si ferma soltanto quando il suo naso è a qualche centimetro da quello di A., 14 anni. Il soldato urla in faccia al ragazzino qualcosa che in italiano suona come: “non puoi stare qui dentro! vuoi essere pestato per questo?”

Tutto succede molto velocemente.

In quel momento temo che possa accadere il peggio. E così deve aver pensato anche l’altra compagna, poiché ci ritroviamo insieme vicini ai due. Non esito a tenere la videocamera alta e bene in vista. Scandisco a chiare lettere, con voce decisa e ferma – ma non arrabbiata – che stiamo riprendendo tutto. Allo stesso modo ripeto più di una volta che quel ragazzino ha solo 14 anni.

Siamo nella fase, delicatissima, dell’interposizione.

Dopo poco mi accorgo che il secondo dei tre soldati – più giovane, alto, ben rasato – ha preso in mano la videocamera dell’altra ajnabyie. Costui si gira verso di me e prova a prendere anche la mia, ormai preziosa, preziosissima, videocamera. Tenta una, due volte. I riflessi non mi tradiscono. L’ occhio internazionale è ancora lì nelle mie mani.

È in quel momento che mi entra in circolazione una dose – purissima – di paura.

E dalla paura all’errore il passo è breve. Il soldato si volta dall’altra parte per un secondo. Così allungo la mano e, con un azzardo, cerco di riafferrare il bene perduto. Niente da fare.

Quando ritorno in me l’altro soldato – il capo – mi sta urlando in faccia. Chiede con insistenza il mio passaporto. Non appena lo tiro fuori dalla tasca, cerca di strapparmelo di mano.

“Non puoi prenderlo. Puoi solo vederlo nelle mie mani” – gli faccio notare.

Sordo alle mie parole tenta di appropriarsene una, due, tre volte. Dopodiché minaccia di arrestarmi.

“Conosco la legge” – ripeto invano.

Minaccia di nuovo di arrestarmi.

“Se vuoi arrestarmi devi chiamare la polizia. Io sono qui”

“Sono IO la polizia” – mi risponde con marcata arroganza.

“Sei solo un soldato, non sei la polizia”

A quel punto tira fuori la sua carta d’identità, me la passa davanti agli occhi e riproponendosi in maniera ridicola a sé stesso afferma: “Hai visto? Sono io la polizia!”

“Sei solo un semplice soldato, non sei la polizia” – mi trovavo nella condizione di non poter affermare che due più due fa quattro.

Intanto l’altra compagna riesce, in qualche modo, a farsi ridare la telecamera e, preoccupata della mia sorte, si avvicina.

Il militare – che, lo ricordo, ha la barba poco curata per i canoni dell’esercito – si gira di scatto e inizia a chiedere con insistenza anche il suo passaporto.

“Non glielo dare in mano, mostraglielo ma non darglielo in mano!” – sento di doverle ordinare.

Nel frattempo continuo a esibire il passaporto aperto sulla pagina della foto per far capire al soldato che so esattamente fin dove si può spingere il suo potere – in linea teorica, certo.

A quel punto l’animo iracondo del militare trova un attimo – seppur breve – di pace.

Gira la testa per un istante. Ha gli occhi assenti.

Dopodiché con la mano destra apre una tasca del giubbotto e prende il suo smartphone – tutti i soldati israeliani hanno uno smartphone – e inizia a fotografare il mio passaporto.

“Non ti muovere!” mi ordina. Poi si gira e torna dagli altri commilitoni che, intanto, stanno discutendo animatamente con M., l’altro pastore, poco più che ventenne. È questione di un attimo e il soldato alto e ben rasato prende per un braccio M. e lo strattona un paio di volte. Mentre ci riavviciniamo il caposquadra ha la premura di venirci incontro. “Non vi muovete! State qui! Sto chiamando la polizia”.

Ed ecco che il terzo soldato – il più giovane, alto e con un cappello da pescatore in testa – arriva a piantonarci. “Non vi muovete” – sono le uniche parole che riesce a dirci.

Mi giro e vedo i militari che stanno portando M. più in là.

“Perché lo stanno portando via?” – nessuna risposta.

Sono convinto che stanno trascinando M. verso la camionetta per arrestarlo.

E invece si fermano.

Gli ajaneb sono distanti.

I soldati “applicano” le manette di plastica al pastore.

Passa un minuto, forse due.

Il soldato col cappello da pescatore ci lascia e ritorna verso la sua squadra.

M torna indietro, senza le manette.

“Cosa ti hanno detto?” – gli chiedo preoccupato.

“Niente”

M si gira verso i militari e poi, ancora carico di adrenalina, si volta verso di me sorridendomi: “Hanno detto che se ci vedono ancora lì dov’eravamo mi pestano di botte”.

Il “puro esercizio del potere” dei militari tutto ad un tratto mi viene sbattuto in faccia. Ora è tutto chiarissimo. Il furto della telecamera, la postura, i gesti, gli occhi, le foto, le bugie, le minacce… tutto era finalizzato a non farci vedere, sentire, riprendere… essere lì. Lo scopo della Forza Occupante è stato – oggi – quello di “smantellare” il nostro potere.

In quei due minuti ad M. avrebbero potuto fare qualsiasi cosa.

Noi eravamo distanti, troppo distanti.

Sto malissimo.

Il Gemello Cattivo

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