RadioDog
(if I can't dance, it's not my revolution)- racconti d'amore da terre resistenti
Nel giorno del sole
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Nel giorno di sole del 26 novembre mi fermo, dopo tanti giorni passati a correre su queste colline di sassi ed erba secca, a provare a guardarmi dentro, a prestare ascolto ai pensieri che mi rimbalzano, disordinati, per il cervello.

Sono sulla strada che porta a Mufaqarah, i ragazzi e gli uomini di tutte le famiglie di questo villaggio lavorano, spaccando pietre, per costruire il muretto a secco che costeggia la strada.
Ci danno dentro di brutto, urlano, scherzano, sudano e ridono senza fermarsi.
Ogni tanto un bicchierino di shai (con lo zatar o con la marmilla) scandisce il tempo e ricarica le energie: tutti si fermano, trovano un po’ di rami secchi per il fuoco. Un ragazzetto prende il borrado (la teiera) e prepara il tè, servendolo prima a noi ajaneb e poi ai più vecchi. Gli shabbab, i più giovani, aspettano che noi vuotiamo i bicchieri prima di riempire i loro. E’ il momento in cui ci si raccontano le storie, si commentano le notizie dei villaggi vicini e noi italiani siamo al centro dell’attenzione visto che ci muoviamo nell’area in lungo e in largo e conosciamo un sacco di persone. Poi, al cenno di M., il capovillaggio, giovani e vecchi insieme ricominciano a faticare, lasciando anche i discorsi a metà. Sono spesso stupito da questo loro atteggiamento, ma ora lo so, la gente qua è dura come le pietre: le parole infatti, a volte sono un di più, una cosa non strettamente necessaria rispetto al rumore del vento o del suono delle mazze che aprono le pietre. E il lavoro è ancora lungo e da finire prima delle piogge.
Tra loro, c’è anche Ibrahim, un tipo un po’ matto… “Mishkino” mi dice M. a metà tra il divertito e il compassionevole “un poveretto, ritardato. Lui andrà sicuramente in paradiso. Allah ha voluto questa sua sfortuna sulla terra, per poi dargli una fortuna più grande, dopo. E’ malato in testa, ma è puro di cuore”.
Ibrahim viene preso in giro e lui sempre sta al gioco: si diverte a scambiare noi italiani per coloni israeliani, ci parla in ebraico, ci insulta. I ragazzi gli dicono di essere gentile con gli ebrei, che in fondo gli hanno “solo” portato via la casa pestandolo a sangue. Lui allora ritorna a parlare arabo e sembra far il gentile salvo per poi imprecare improvvisamente all’indirizzo delle nostre mamme e tutti ridono, e pure lui, felice di essere al centro dell’attenzione.
Lavora come un mulo, non si ferma neanche per il tè con tutti gli altri, che pure si fanno in quattro.
Ed è proprio in questi giorni di lavoro intenso che gli viene riconosciuta una funzione sociale, che si sente utile all’interno della comunità. Lui è quello che “tira” più di tutti, curvo sul suo piccone a spaccare queste rocce millenarie, quasi stesse combattendo la lotta antica della diversità contro il pregiudizio, abbattendo i muri a suon di mazzate.

Penso che ho molto da imparare da lui, da questo suo fare senza rivendicare piagnucolando, da questo suo affrontare di persona il proprio problema, esponendo e scoprendo anche le parti più deboli della propria persona.
E’ questo che posso ricevere da lui, il capire che le debolezze che gli altri vedono in noi sono una finestra aperta sul nostro essere, una via d’accesso per una accettazione completa di noi.

Se teniamo chiuse le imposte, se non mostriamo le nostre debolezze e le nostre paure più recondite, nascondiamo le vie d’accesso più profonde e più dirette.

Per questo mi ritengo fortunato di aver incontrato Ibrahim: lui sa di essere un “mishkino”, un pazzo e non lo nasconde. Non chiude le imposte.

E poi mi guardo, mi vedo da fuori goffo e maldestro, in questo giorno di sole che non lascia spazio alle ombre: quali finestre posso aprire io?

Maquisibr

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